Attraverso il conflitto. Il valore della cooperazione tra insegnanti

Cooperazione tra insegnantiLa capacità di cooperare tra gli insegnanti e l’attitudine ad instaurare relazioni interpersonali positive sono due caratteristiche fondamentali per l’insegnante, che spesso si trova a dover prendere importanti decisioni di concerto con altri, a condurre il gruppo classe in circostanze difficili, a dover continuamente riadattare le proprie modalità d’insegnamento in accordo con le situazioni contingenti. Pertanto, il percorso formativo che porta all’assunzione di un ruolo tanto complesso dovrebbe riservare uno spazio considerevole allo sviluppo di quelle abilità sociali imprescindibili per lavorare efficacemente in gruppo: tra esse, senza dubbio, la capacità di attraversare il conflitto e trasformarlo in dialogo costruttivo.

Molto spesso si dà per scontato che gli insegnanti (e, più in generale, gli adulti) abbiano acquisito le abilità necessarie a lavorare insieme, come se l’età e una solida esperienza nel ruolo fossero sufficienti a garantire la capacità di costruire le relazioni sociali positive necessarie al buon esito lavorativo.

In realtà non è così, e le persone si trovano molto spesso a vivere situazioni professionali difficili senza avere gli strumenti necessari per affrontarle al meglio. Il tema è centrale in riferimento alla scuola, che è il luogo in cui i bambini/ragazzi passano gran parte della giornata e, di conseguenza, uno degli spazi di apprendimento più importanti per il loro sviluppo.

La cooperazione tra insegnanti: l’ingrediente fondamentale per una scuola efficace

In questo contesto, il comportamento dell’insegnante rappresenta una stella cometa per gli alunni, e anche i rapporti sociali che egli instaura con i colleghi lasciano nei bambini/ragazzi delle tracce ben segnate in termini di ricordi ed emozioni.

Il tema della valutazione si rivela centrale nel percorso professionale dell’insegnante: è anche osservando il modo in cui gli adulti interagiscono tra di loro che i più giovani apprendono il senso di riconoscimento reciproco, la capacità di comprendere l’altro e mettersi nei suoi panni, il valore della gentilezza (intesa come capacità di ascolto e di accoglienza delle fragilità altrui), il senso di empatia e fiducia nell’altro.
Nel suo articolo del novembre 2015 per Scintille.it sull’autovalutazione, Riccarda Viglino ha proposto, all’interno di un corso di formazione, una rubrica di valutazione messa a punto insieme agli insegnanti e basata su criteri condivisi, volta a rilevare e riconoscere i miglioramenti avvenuti a seguito del corso frequentato: questa modalità ha stimolato una maggiore consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei propri punti di forza.

In un articolo successivo, Francesca Napoletano ha ripreso il tema da un punto di vista complementare: a partire dalle direttive della legge sulla “Buona Scuola” relative alla valutazione dell’insegnante, ha delineato una panoramica delle modalità di valutazione adottate nei paesi dell’Unione Europea, per poi confrontarle con quelle proposte in Italia, suggerendo una modalità per la valutazione dell’insegnante come un momento positivo e costruttivo, piuttosto che minaccioso e denigrante.

Ma che cosa c’entra il conflitto con il riconoscimento, con l’empatia, con la fiducia?

Le parole sono importanti!

Il conflitto arabo-israeliano.
Il conflitto tra genitori e figli.
Probabilmente non ci si ferma abbastanza a riflettere sull’utilizzo del sostantivo “conflitto” in contesti così differenti: eppure ne vale proprio la pena!
“Conflitto” è un termine che usiamo perlopiù come contenitore, che racchiude molte altre parole anche di significato profondamente diverso: abitualmente gli attribuiamo una valenza negativa, proprio perché rimanda ai concetti di violenza, di guerra, di litigio.
A differenza di quanto accade per l’inglese o il tedesco, nel vocabolario della lingua italiana i significati di guerra e conflitto sono sostanzialmente sovrapponibili, probabilmente perché la nostra cultura fatica a considerare un’area comune all’interno della quale possano coesistere relazione e contrasto.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza.
La guerra è una delle forme più estreme di violenza: presuppone un danneggiamento intenzionale dell’avversario (perché la sua eliminazione coincide con la risoluzione del problema) e, di conseguenza, l’annullamento della relazione.
Il conflitto, invece, implica contrasto, divergenza, opposizione, critica nei confronti dell’altro, senza però l’intenzione di procurare un danno all’interlocutore.
“Non litigate, fate subito la pace!”
Chi non se l’è mai sentito dire a mo’ di rimprovero da bambino? Eppure la pace è conseguenza della gestione del conflitto, non della sua assenza.

Il falso mito dell’assenza di conflitto

Il falso mito della pace come bontà, come armonia, come “volersi bene” è una regola impossibile: il conflitto è uno stato della relazione, un momento fisiologico in cui si sperimenta un dissidio, un incontro di interessi contrastanti. L’intento è quello di affrontare il problema mantenendo il rapporto e sviluppando la relazione (se pur difficile, faticosa e problematica). Spesso, il conflitto si manifesta come uno scambio di pareri contrastanti su questioni particolari, che consente l’affiorare di nuove possibilità per arrivare alla scelta più soddisfacente. Una situazione tipo è quella del consiglio di classe, dove una lettura efficace della situazione si fonda sul confronto costruttivo tra opinioni divergenti e sulla condivisione di punti di vista e convincimenti differenti.
Il conflitto, dunque, è insito in tutte le forme del vivere sociale. Possiamo considerarlo come uno stato di tensione che sperimentiamo all’interno di una relazione nel momento in cui i nostri bisogni/desideri/interessi/obiettivi/punti di vista sono in contrasto con quelli dell’altra persona.
Di norma, quando si fa riferimento al tema del conflitto in ambito scolastico, si pensa ad attività di formazione pensate per gli alunni, volte a migliorare la loro abilità nella gestione delle relazioni interpersonali (sapersi rapportare agli altri, comunicare in modo etico ed efficace, saper vivere i conflitti). Instaurare le relazioni in modo costruttivo è un’arte complessa, e spesso richiede dei percorsi educativi mirati e supportati da una guida competente (l’insegnante).

Le abilità relazionali del docente

Le abilità sociali, infatti, non sono innate: piuttosto vanno apprese, sviluppate e allenate proprio come le materie curriculari. Per un docente, dunque, è fondamentale fermarsi a riflettere sulle proprie abilità relazionali dal momento che accompagna i propri allievi lungo un percorso di crescita, per ricoprire il proprio ruolo sociale con efficacia, proponendo dei modelli comunicativi e relazionali validi, trasmettendo sicurezza e fiducia.
La maggior parte degli insegnanti vive in prima persona diversi aspetti problematici nella gestione delle proprie classi: problemi disciplinari, bullismo, scarsa capacità di concentrazione e perdita di interesse da parte dei propri allievi. Di fatto, la qualità delle relazioni in classe dipende anche dalle modalità agite in classe (e non solo) dai docenti, dalle loro competenze relazionali e sociali.
Ragionare e lavorare sul proprio modo personale di porsi rispetto ai conflitti significa adoperarsi per il miglioramento dei rapporti con gli altri e, di conseguenza, avere un riscontro positivo sul proprio modo di essere insegnante.
Lavorando a stretto contatto con i colleghi, i docenti si ritrovano a vivere di frequente situazioni conflittuali: le scuole sono organizzazioni complesse, all’interno delle quali la maggior parte delle decisioni importanti viene presa con il contributo di più persone che, confrontandosi su idee e opinioni differenti, cooperano per arrivare a soluzioni condivise. Ciò nonostante, spesso il collega è considerato un avversario piuttosto che un alleato, e questo clima di mancanza di stima e fiducia nell’altro spiana la strada al conflitto distruttivo. Il rapporto tra colleghi, piuttosto, dovrebbe basarsi sulla reciproca fiducia, sullo scambio di informazioni, sul supporto, sulla condivisione delle attività in un clima di collaborazione e apertura.

Perché entriamo in conflitto?

Un primo passo verso il miglioramento è l’essere consapevoli che nella diversità di competenze e ruoli del rapporto lavorativo è naturale che nascano conflitti: sta a chi li vive renderli costruttivi e non distruttivi!
Come sostiene Kurt Lewin, “Il conflitto è quella situazione che si determina tutte le volte che su un individuo agiscono contemporaneamente due forze psichiche di intensità più o meno uguale, ma di opposta direzione”. Pertanto, le cause che possono dar vita ad un conflitto interpersonale sono varie, e possono essere connesse a fattori individuali (valori e atteggiamenti, opinioni su questioni etiche, bisogno di consenso, percezione e giudizi, personalità differenti), o piuttosto a fattori situazionali (comunicazioni disfunzionali, risorse scarse e limitate, divergenze di interesse, ambiguità delle responsabilità). I conflitti che ne derivano, di conseguenza, assumono aspetti differenti.
Una discussione con un’altra persona può diventare un conflitto perché non si è riusciti a chiarire i diversi punti di vista durante una discussione, o perché ci si sente minacciati, oppure perché si teme di esporsi al disaccordo del proprio interlocutore.
Un fraintendimento può evolvere in un conflitto quando la comunicazione interpersonale non è efficace e le persone non solo hanno punti di vista contrastanti, ma in più dispongono di informazioni parziali.
Ancora, può nascere un conflitto quando ciascuna delle persone coinvolte ha interessi diversi che possono essere soddisfatti solo a discapito dell’altra. Spesso, conflitti di questo tipo scaturiscono quando ci sono intenzioni nascoste, quando le persone non sono state oneste e trasparenti nelle richieste avanzate o nell’esprimere i propri bisogni, quando una delle due parti si è sentita tradita dall’altra.
Già da queste brevi riflessioni emerge come il conflitto sia costituito da aspetti razionali ed emozionali intrecciati al punto che, spesso, riesce difficile distinguerli.

Gestione del conflitto ed intelligenza emotiva

Ne deriva che la possibilità di riconoscere e gestire positivamente il conflitto è strettamente correlata all’ intelligenza emotiva, ovvero alla capacità di conoscere le emozioni (cosa sono, come si differenziano le une dalle altre, come e perché nascono e come si modificano), riconoscere le proprie e quelle degli altri, saperle gestire con efficacia per affrontare un problema.
Le emozioni e i sentimenti pervadono indubbiamente la vita imprimendo la propria impronta sui rapporti umani, e non di rado arrivano a trovarsi in combinazione con determinati sistemi di valori nell’influenzare gran parte dei comportamenti sociali – privati e pubblici, economici e politici -. Tendenzialmente, siamo abituati a considerare come più autorevole la razionalità, sebbene la nostra natura rimanga prevalentemente emotiva ed affettiva: le emozioni e i sentimenti costituiscono il nostro principale legame con le cose e, soprattutto, con le persone; le esperienze ci guidano e ci educano attraverso le emozioni che suscitano, piuttosto che attraverso i fatti o i ragionamenti, orientando il nostro agire.
L’emozione, in quanto intrinsecamente connessa a tutti i rapporti interpersonali, fa parte del conflitto ma non coincide con esso: nel momento in cui accade qualcosa, prima ancora che intervenga il pensiero logico-deduttivo, è l’emozione ad informarci su cosa sta succedendo e a guidare le nostre reazioni. Non tutte le situazioni problematiche diventano conflittuali, ma soltanto quelle che ci attivano emotivamente, che ci “sequestrano a livello emozionale”. In questo senso i conflitti sono delle esperienze soggettive che rispecchiano i nostri “tasti dolenti”, ovvero dei residui di sofferenza interiore legati alla nostra infanzia capaci di riattivare emozioni vissute in passato.

A differenza del trauma (che deriva da un accadimento violento e viene necessariamente rimosso dalla memoria conscia perché insostenibile dal punto di vista emotivo), il tasto dolente può rimanere nell’area dei ricordi consapevoli; nelle situazioni conflittuali torna ad emergere come un nervo scoperto, attivando dei copioni relazionali, delle modalità comportamentali che ci appartengono e rispecchiano i nostri bisogni nascosti.
È raro, infatti, che un conflitto esprima direttamente un problema sostanziale; ad emergere, di solito, è il pretesto, la punta emersa dell’iceberg che nasconde una parte sommersa ancora più corposa: i bisogni. Generalmente il conflitto nasce proprio da un bisogno insoddisfatto, dalla difficoltà di riconoscerlo e di comunicarlo in maniera adeguata al proprio interlocutore.

Attraversare il conflitto per trasformarlo in dialogo

L’approccio al conflitto sembra essere un po’ difficoltoso per la nostra cultura europea occidentale: lo si teme, lo si evita fino a fingere che non esista e, se proprio ci si trova costretti ad affrontarlo, lo si fa con estrema difficoltà, con l’impazienza di risolverlo. La ricerca della soluzione ad ogni costo, però, risulta essere inefficace perché si limita alla punta dell’iceberg, alla parte emersa e manifesta del conflitto, tralasciandone la vera origine. Piuttosto, vale la pena di analizzare in profondità la situazione e aprire la strada all’opportunità: il conflitto è indissolubilmente legato alla relazione, e in quanto tale può costituire una preziosa occasione per imparare qualcosa su noi stessi, sugli altri, sulle dinamiche relazionali che instauriamo e sulle (re)azioni che mettiamo in atto.

Ma quali strategie siamo soliti adottare quando ci troviamo ad affrontare un conflitto?

Le modalità che mettiamo in atto sono diverse.

  • A volte tendiamo ad imporci sull’altro, instaurando una vera competizione per determinare un vincente e un perdente. Di solito, chi sceglie di comportarsi in questo modo lo fa perché ha poco tempo, o ha la certezza di essere dalla parte della ragione e vuole trarre un vantaggio, anche a costo di compromettere i rapporti interpersonali (si impone “con la forza” il proprio punto di vista).
  • In altri casi, cerchiamo un compromesso per arrivare ad una soluzione a metà strada tra i nostri interessi e quelli dell’altra parte, ma ciò significherà in ogni caso fare una rinuncia: entrambi ne usciremo “vincitori”, ma la nostra relazione ne risentirà (si cerca un compromesso).
  • Talvolta preferiamo abbandonare il campo, cedere la “vittoria” alla nostra controparte e ritirarci, per mancanza di coraggio o per scarso interesse verso il problema (si abbandona il campo per evitare il conflitto).
  • In alcune circostanze, anziché pensare ad una corretta gestione di risoluzione del conflitto, preferiamo salvaguardare i rapporti umani, trovando una soluzione che vada bene per entrambi, contendendo e controllando le emozioni, evitando così ulteriori discordanze (ci si adegua per compiacere l’altro).
  • Altre volte ancora, cerchiamo la collaborazione, e ci impegniamo insieme al nostro interlocutore per trovare la giusta soluzione che consenta ad entrambi di affermare i propri punti di vista, rimanendo ugualmente attenti alla relazione (si cerca il confronto per arrivare alla soddisfazione di entrambi).

Qual è la strategia migliore?

Dipende.
Tendenzialmente, la cooperazione assertiva fa sì che riusciamo a riservare importanza tanto alle nostre esigenze quanto alla buona relazione con il nostro interlocutore. Di fatto, ciascuna delle altre strategie ha dei punti di forza in riferimento alla specifica situazione che si sta vivendo.
Ma cosa possiamo fare praticamente per riuscire a trasformare in dialogo il rapporto conflittuale con una persona con cui non troviamo proprio una sintonia?
Non esistono ricette, ma sicuramente possiamo portare avanti delle riflessioni costruttive a partire da un punto fermo: non possiamo cambiare l’altro, né costringerlo a fare ciò che vorremmo facesse. Il conflitto rappresenta per noi una situazione di pericolo e mette in allerta il sistema di risposta ad una minaccia. Quando viviamo una situazione di conflitto ci sentiamo vittime, e cediamo il “potere” all’altro: perdiamo totalmente di vista le nostre risorse personali e ci convinciamo del fatto che l’unico modo di porre fine al conflitto è che l’altro cambi comportamento/atteggiamento. La manipolazione, il tentativo di ottenere a tutti i costi qualcosa che l’altro non può/sa/vuole darci, potrebbe sembrare una strategia utile nell’immediato, ma sul lungo termine provoca frustrazione, rabbia, mal contento da entrambe le parti.
Se c’è una possibilità che abbiamo per far sì che il conflitto si trasformi in un dialogo costruttivo, è intervenire sul nostro personale modo di relazionarci con l’altro: modificando le nostre azioni e reazioni, indirettamente interverremo anche su quelle del nostro interlocutore, che a sua volta adotterà un comportamento diverso in risposta al nostro. L’impegno nella trasformazione del conflitto, dunque, è una chance per (ri)attivare le proprie risorse personali. Per far questo, il primo passo è imparare a so-stare nel conflitto, prendere atto con consapevolezza dei motivi che lo hanno generato e riconoscere la propria posizione al suo interno, lungo un accurato percorso introspettivo che porti alla scoperta di aspetti di sé che, talvolta, rimangono inesplorati: i propri tasti dolenti, i propri bisogni e le emozioni che suscitano, gli aspetti sommersi.
Se non tutti i disaccordi diventano conflitti, ma solo quelli che attivano il nostro sistema emozionale, allora vale la pena di chiedersi: cosa mi attiva emotivamente? La svalutazione della mia opinione? Il mancato riconoscimento del mio lavoro, in cui ho profuso tanto impegno? La risposta a questa domanda è personale, ma ci consente di riconoscere e individuare i nostri “punti di innesco” che aprono la porta al conflitto. Questa prima fase non va data per scontata: piuttosto che pensare ad una sua risoluzione hic et nunc, il conflitto andrebbe sempre esplorato, compreso, chiarito e affrontato in modo positivo, con la profonda convinzione di trasformarlo in dialogo.
In tutto ciò emerge però la difficoltà di capire le ragioni degli altri, di accettare la divergenza di visioni: spesso si tende ad identificare la persona con la quale si entra in conflitto con il problema, trasformando il proprio interlocutore in un temibile nemico da battere. Potrebbe essere più costruttivo, invece, impegnarsi a tutelare insieme la relazione, soprattutto nei momenti di tensione e di incomprensione in cui l’altro può diventare risorsa e non ostacolo. Si rende necessario abbandonare la convinzione che per soddisfare i propri bisogni sia necessario calpestare quelli dell’altro, entrando in una dinamica che consenta a tutte le parti di uscire vincitrici. In molte occasioni, per esempio, è necessario esprimere un’indicazione, un suggerimento o dare una disposizione ad un collega. Come si può perseguire il proprio obiettivo e, al contempo, salvaguardare la relazione positiva con il proprio interlocutore?

Per prima cosa, bisogna assicurarsi che l’altro non si senta giudicato, porgendo le proprie osservazioni mirate al problema e non alla persona. Ancor più se espressi in seconda persona, i giudizi etichettano l’altro e focalizzano l’attenzione sui torti (anziché concentrarsi sui bisogni), sui confronti negativi e svalutanti, sul rifiuto della propria responsabilità; giudicare in questi termini diventa umiliare, e produce nell’altro reazioni di difesa, resistenza e rifiuto.
Al contempo, bisogna far attenzione a formulare delle richieste, non delle pretese: chiedere con precisione e concretezza, non fare richieste astratte e generiche, né pretendere. Ciò comporta, da un lato, la capacità di ricevere con empatia le osservazioni, i sentimenti, i bisogni dell’altro (decentramento, ascolto attivo, empatia). Dall’altro, comporta la capacità di esprimere chiaramente ciò di cui si ha bisogno, ciò che si vorrebbe, usando il “messaggio-io”, formulando cioè in prima persona le osservazioni e le richieste (affermazione positiva, assertività).
“Tu sei, tu hai detto, tu hai fatto” sono espressioni che trasmettono il tono accusatorio di qualcuno che si tira fuori dalla situazione conflittuale. Scegliendo, piuttosto, di esprimerci in prima persona, comunicheremo al nostro interlocutore che il conflitto ci appartiene, che siamo consapevoli del nostro ruolo al suo interno, che ci assumiamo la nostra responsabilità (non la colpa!), che riconosciamo il nostro coinvolgimento emotivo.

Imparare a relazionarsi in modo costruttivo non significa soltanto adottare “buone tecniche” comunicative che permettano di mantenere il controllo delle relazioni, ma significa soprattutto aprirsi al riconoscimento e alla consapevolezza delle emozioni, dei sentimenti e di quei processi comunicativi che tutti, noi e gli altri, attiviamo nelle relazioni. Il conflitto diventa così un’opportunità di leggere se stessi, di osservare le parti di sé più nascoste e sconosciute, che emergono in maniera evidente nella relazione con l’altro.
Quando i membri di un gruppo di lavoro sono consapevoli del fatto che il disaccordo sia un aspetto naturale all’interno delle dinamiche di gruppo (anzi, un passaggio obbligato per il raggiungimento di obiettivi comuni) i presupposti sono ottimi perché il conflitto si riveli costruttivo e si instauri un clima aperto alla libera espressione dei punti di vista, all’ascolto delle diverse idee e opinioni, al rispetto reciproco all’interno del gruppo.
Sono proprio questi gli aspetti che fanno del conflitto una preziosa occasione di crescita, un fattore importante per l’efficacia del lavoro orientato al cambiamento, che mette le persone in condizione di sviluppare una gamma più ampia di idee e soluzioni.

Bibliografia e sitografia
Johnson D. W. /Johnson P. S., Apprendimento cooperativo in classe: migliorare il clima e il rendimento, Erikson, 1996
http://spirale-edu-revue.fr/IMG/pdf/Lefeuvre_Spiral-E_2010.pdf
Giannelli M. Teresa, Comunicare in modo etico. Un manuale per costruire relazioni efficaci, Cortina Raffaello, 2006
Novara D., La grammatica dei conflitti. L’arte maieutica di trasformare le contrarietà in risorse. Edizioni Sonda, 2011

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