Educazione e giustizia sociale: una riflessione fuori moda?

In un clima educativo in cui siamo immersi nel dibattito su BES e DSA che invita a utilizzare strumenti come il PDP nel quale determinare misure dispensative e compensative, termini come equità e giustizia sociale sembrano essere passati di moda.

Le attuali direttive ministeriali sollevano questioni importanti rispetto alle difficoltà di apprendimento e ai bisogni educativi specifici, proponendo mezzi per raggiungere l’obiettivo dell’integrazione e del diritto all’apprendimento per tutti. Spesso però questi si riducono a procedimenti amministrativi o azioni compensative che poco modificano la situazione in classe e i processi di insegnamento-apprendimento.

Pare difficile ricondurre questi discorsi alla tema della giustizia sociale. Eppure, a mio avviso, sembra necessario, forse ancora più che prima, accompagnare a queste direttive una riflessione sui fini dell’educazione e sull’equità.

Il rischio, infatti, è quello di cadere in tecnicismi che lasciano sulla sfondo la questione dell’equità in classe, quasi considerandola scontata.
Si può cadere nella reiterazione di procedure (a cui viene dato di volta in volta un’etichetta diversa) che però non hanno la forza di interrogare l’approccio educativo consueto.

D’altra parte il Trattato di Lisbona (2000) aveva già posto l’accento sulla necessità di migliorare la qualità dell’educazione, intesa come “realizzazione delle pari opportunità e lotta all’esclusione”.

Ma che cosa significa oggi parlare di pari opportunità e giustizia sociale in educazione? Le risposte potrebbero essere molteplici ed è opportuno fare chiarezza.

Un modo per affrontare la questione è considerare gli studenti come “tutti uguali”. Un’affermazione ricorrente fra alcuni insegnanti è quella di non voler fare discriminazioni (o agevolazioni) fra gli studenti.

Ciò si può tradurre nel giudicare tutti in base agli stessi criteri e alle medesime prove di valutazione. In caso di insuccessi, a volte si elude la questione abbassando le richieste, con il proposito di coinvolgere tutti.

Più di rado ci si interroga sulla natura e sulla validità di quei criteri e prove, spesso ritenuti strumenti neutrali nel processo di apprendimento. Questo approccio si può riflettere anche sul modo di progettare una lezione e sulla scelta del compito da assegnare. Con l’intenzione di essere “equi”, si costruisce un compito in base alle caratteristiche di un ipotetico studente medio o su quello che è percepito come il livello medio della propria classe.
Si tende cioè a pianificare unità didattiche per un gruppo classe ritenuto “omogeneo”, mentre meno frequentemente si pensa alla possibilità di progettare per le diversità presenti nella propria classe a priori, ossia a pianificare percorsi didattici e compiti che già prevedono che saranno svolti da un gruppo classe eterogeneo al proprio interno.

Un’altra visione che può condurre ad un’interpretazione erronea dell’equità è quella che si basa su una logica strettamente meritocratica. A volte alcuni insegnanti possono pensare: “Uno studente è uno studente. I risultati che raggiunge dipendono dal suo impegno individuale”.

Tale approccio sembra mettere al riparo da possibili ingiustizie, presupponendo che lo sguardo dell’insegnante sia libero da preconcetti. A ben guardare però, anche questa visione è critica poiché non
permette di interrogarci né sul ruolo giocato dall’insegnante – qui chiamato fuori dal problema, né su quali sono le condizioni in cui avviene la partecipazione e l’apprendimento in classe.

Pensare che siamo tutti uguali e agire come se così fosse, non ci rende tutti uguali. Il fatto di ignorare le differenze non vuol dire che queste non esistano. Se queste rimangono celate, continueranno comunque a determinare il processo di apprendimento (e quindi il successo scolastico).

Giustizia sociale in educazione significa invece che “tutti gli studenti ricevono il sostegno e le istruzioni di cui hanno bisogno per riuscire a scuola, non che tutti gli studenti ricevono lo stesso sostegno e istruzioni” (Berry R. W., 2008).

Parlare di giustizia sociale vuol dire prima di tutto porsi la questione del diritto all’istruzione per tutti, ovvero che tutti gli studenti possano apprendere. Ma perché questo diritto non sia solo una dichiarazione di principio, è necessario interrogarsi sulle strategie educative che consentono effettivamente di raggiungere questo obiettivo, e quindi garantire un uguale accesso ai processi di apprendimento per tutti gli studenti. Si tratta di essere disponibili a mettere in discussione le pratiche didattiche consuete.

La giustizia sociale, inoltre, è anche un’azione socio-politica nel momento in cui permette di dare voce e riconoscere il potere di partecipare all’altro (Griffiths, 1998). Tale accezione, più forte in ambito anglo-sassone, si pone la questione di come le gerarchie sociali e culturali esistenti possano incidere sullo
spazio di partecipazione dell’altro.

Come rendere allora possibile la giustizia sociale in classe?

Il primo passo parte dal porsi tre interrogativi:

1) Ci sono spazi nella didattica in cui è possibile partecipare?

2) Come è organizzata la partecipazione in classe?

3) Chi ne resta escluso? Perchè?

Il secondo passo è cercare metodologie didattiche che permettano di ri-organizzare il processo di apprendimento in classe.

L’apprendimento cooperativo è una metodologia didattica che permette di affrontare queste domande in modo proficuo e che offre una modalità efficace di gestione della classe per gruppi di lavoro. In particolare, l’ Istruzione Complessa di E. Cohen, attraverso la creazione di compiti che richiedono l’interdipendenza di abilità e intelligenze diverse e il trattamento di status, realizza le condizioni che rendono possibile riconoscere e apprezzare i diversi contributi intellettuali di ogni studente e modificare la propria didattica in una prospettiva più equa (Cohen, 1997).

Oggi si parla di integrazione, di scuola inclusiva e più in generale di educazione alla cittadinanza, ma
solo riflettendo in modo esplicito sulla questione della giustizia sociale, si può pensare che il proprio insegnamento si muova nella direzione di una maggiore equità e di una reale educazione a alla democrazia e alla cittadinanza attiva.

Promuovere una cultura democratica a scuola implica il riconoscimento dell’eterogeneità e diversità dei propri studenti e la creazione di uno spazio in cui sviluppare il potenziale umano di ognuno di essi.

Sarà allora davvero così fuori luogo parlare di giustizia sociale?

Bibliografia minima

Berry Wiebe A. W. (2008), Novice teachers’ conceptions of fairness in inclusion classrooms. In Teaching
and Teacher Education, 24 (5), 1149-1159

Cohen E. (1999, ed. or. 1994), Organizzare i gruppi cooperativi. Ruoli, funzioni, attività, Trento, Erickson

Griffiths, M. (1998). Educational Research for Social Justice. Getting off the fence. Buckingham: Open
University Press.

Pescarmona I. (2011), Cosa ti aspetti da me? Sguardo socio-antropologico sul ‘sistema classe’, in La Pagina, rivista on line USR Piemonte, anno 1, n. 12, Torino, 11 Aprile 2011

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