Cosa fare quando un collega non vuole parlarti e quando lo fa ti tratta male?

Quando le relazioni tra colleghi si fanno difficiliLa scuola, come tutti gli ambienti di lavoro, è un microcosmo sociale fatto di equilibri, relazioni e dinamiche, generate dalle persone che la abitano e la vivono quotidianamente.

Non è raro il caso in cui i protagonisti di questo microcosmo sociale soffrano di grandi malesseri derivanti dallo stesso ambiente di lavoro che, talvolta, sfociano in una vera e propria sindrome da burnout. Anche senza giungere alle estreme conseguenze, comunque il disagio continuo sul posto di lavoro ci fa affrontare con tanta fatica e pesantezza le nostre giornate, soprattutto quando incomprensioni e frustrazioni derivano proprio da rapporti difficili con i colleghi. I colleghi infatti sono gli interlocutori con cui, volenti o nolenti, ci si deve confrontare e accordare continuamente su numerose questioni, tutte piuttosto rilevanti: dall’orario delle lezioni, alla gestione delle classi condivise, dalle decisioni del consiglio di classe, alle riunioni collegiali.

E allora cosa fare quando un collega non vuole parlarci o quando ci tratta male?

Quand’anche i dissidi nascano su questioni professionali, essi portano con sé il personale modo di essere e rapportarsi dei singoli. Ognuno di noi, infatti, porta sul lavoro la propria personalità, di interagire con gli altri e di reagire alle situazioni e questo influenza inevitabilmente i rapporti che si instaurano.

Chi è più consapevole di se stesso e dei propri meccanismi interni è in grado di osservarsi e decidere come reagire alle singole circostanze immediatamente. Chi, al contrario, non è portatore di una simile autoconsapevolezza spesso agisce e reagisce anche in modo precipitoso o spropositato rispetto alla circostanza attuale.

La buona notizia è che abbiamo la possibilità di scegliere come reagire e questo ci dà un grande potere!

Quindi possiamo cominciare con l’analizzare la singola circostanza per poi decidere come comportarci.

Partiamo dal presupposto che, come dicono le prime due regole della comunicazione umana (Watzlawick, 1971):

  1. Non si può non comunicare, perché qualsiasi comportamento comunica qualcosa, il silenzio stesso è una forma di interazione che veicola un significato (ad es. può significare: “Sono arrabbiato con te e non voglio parlarti”);

  2. All’interno di ogni comunicazione si possono individuare due livelli: il primo è quello del contenuto, cosa stai comunicando; il secondo è quello della relazione, come stai comunicando, ossia che tipo di relazione vuoi instaurare con la persona a cui ti rivolgi.

In sostanza è importante cosa diciamo e anche come lo diciamo: ad esempio a qualcuno che mi interrompe mentre sto lavorando, posso dire con tono spazientito “Non mi disturbare!” oppure con tono gentile “Sto finendo un lavoro, possiamo parlarne dopo?”.

Queste due diverse modalità di risposta, che ci dicono molto sul tipo di rapporto esistente tra gli interlocutori, veicolano contenuti profondi molto diversi tra loro. Infatti, rimanendo sul livello che abbiamo denominato della relazione, possiamo distinguere, in ogni comunicazione, un messaggio manifesto ed uno latente (Berne, 1953).

Ad esempio posso dire, con tono brusco “Devo andare in classe, ora non posso darti ascolto”, che è un messaggio esplicito, il cui sottostante messaggio latente potrebbe essere: “Non ho nessuna intenzione di ascoltarti, non mi interessa quello che hai da dirmi, perché sono arrabbiato con te”, per esempio.

Il segreto sta nella possibilità di scegliere a quale dei due stimoli rispondere, se a quello esplicito e manifesto o a quello “ulteriore” e latente: da questa scelta dipenderà l’esito della nostra interazione. Infatti, avendo una chiara consapevolezza di ciò che il messaggio latente stimola in me (rabbia, dispiacere, insicurezza?) e una altrettanto chiara consapevolezza dell’obiettivo della mia interazione (ad esempio, portare a termine una questione di lavoro con un collega), posso decidere come mi è più utile rispondere.

Posso reputare ad esempio che è proprio necessario fare in modo che un collega faccia una certa cosa, allora nell’esempio sopra citato “Devo andare in classe, ora non posso darti ascolto”, risponderò: “Invece dovresti farlo, perché è proprio necessario che …”, tralasciando in tal modo il fatto che è stato sgarbato.

Posso invece scegliere che voglio avere una discussione con lui affinché la smetta di evitarmi o rispondermi male, allora risponderò al messaggio ulteriore, esplicitando quello che sta accadendo tra noi: “Non capisco perché sei così brusco con me, ti prego di cambiare atteggiamento!”

Qualunque sia l’alternativa comportamentale che sceglieremo, è sempre buona cosa rimanere in contatto con il proprio sentire ed essere fedeli alla propria natura.

Bibliografia

  • Berne E., La Natura della Comunicazione, in The Psychiatric Quarterly, 1953
  • Berne E., “Ciao!”… E poi?. Milano Bompiani 1972
  • Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatica della comunicazione umana. Astrolabio Roma 1971
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1 Commento. Nuovo commento

  • Barbara Salati
    18 Gennaio 2024 06:54

    È proprio necessario difendersi? Potrebbe essere sufficiente una sana indifferenza e, di tanto in tanto, una risposta “adulta” e ferma per non consentirgli di oltrepassare certi confini. Intendo che, senza rischiare di farsi agganciare in “giochi” psicologici, partendo dalla dignità di sé, si può arginare l’altro quando lo sentiamo eccessivamente aggressivo.

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