Dal Tutor per i Bes al Bes Tutor: un’esperienza di peer education

Tutor bes e peer education

Sono una psicologa e oltre alla pratica clinica nel mio studio privato, lavoro a scuola nel ruolo di assistente specialistico (ruolo secondo il MIUR)

Questa posizione mi dà l’opportunità di avere un punto di vista privilegiato, che non è né quello della cattedra, né quello dei banchi, ma un grandangolo che può cogliere l’intero processo dello scambio educativo.

Partendo da una lettura sulle avanguardie educative, nella scuola in cui lavoro, abbiamo messo a punto un progetto che sviluppa un particolare metodo di Tutoring.

L’obiettivo del lavoro è stato co-costruire con insegnanti e studenti un ambiente inclusivo basato sulle risorse esistenti piuttosto che sulle fragilità che ostacolano.

L’osservazione delle dinamiche in classe mi ha fatto sorgere alcuni dubbi sulla modalità ancora frequente di promuovere una cosiddetta “inclusione” che spesso finiscono per ottenere una risposta esattamente opposta all’obiettivo prefissato.

Partendo dalla didattica Peer to peer, si è sviluppato il concetto di Tutoring. I progetti di insegnamento reciproco tra alunni (peer tutoring) prevedono che un alunno (Tutor) svolga un’attività di insegnamento diretto in coppia ad un altro alunno (Tutee) con o senza Bisogni Educativi Speciali (Topping, 2014). Tale esperienza risulta di notevole ricchezza educativa per entrambe le componenti (tutor e tutee) che possono acquisire oltre ai saperi scolastici anche conoscenze relazionali e la concreta possibilità di sviluppare le loro abilità sociali.

Come sostengono i Johnson (Johnson, Johnson e Holubec, 1996) indubbiamente lavorare in coppia per la promozione di un clima collaborativo e cooperativo è certamente positivo sia per i singoli alunni che per il gruppo classe.

Le osservazioni in classe

Ciò che spesso ho visto accadere nelle classi liceali, tuttavia, è la formazione di coppie in cui vengono affiancati alunni ritenuti più fragili (quasi sempre coloro che vengono identificati come BES) da compagni ritenuti più “bravi”; questi ultimi a volte finiscono per scimmiottare il ruolo dell’insegnante, rischiando di aumentare le distanze tra pari più che la promozione di un supporto reciproco. Tali distanze creano un ambiente competitivo e ostile, proprio mentre l’insegnante tentava di promuovere la collaborazione e l’”inclusione“. Questo mi ha sorpreso, poiché ho sperimentato personalmente, in classi della scuola primaria, quanto sia efficace, indicato e realizzabile che l’insegnante consideri la “zona prossimale di sviluppo” di cui parlava Vygotskij già nel 1934.

Un’attenta osservazione dei processi in atto in simili attività e il confronto con le colleghe insegnanti mi hanno portato a formulare alcune ipotesi che possano dare un’interpretazione a ciò che accade:

  1. Si fa più attenzione al Tutee che al Tutor;
  2. Si verificano più le competenze scolastiche che le abilità sociali;
  3. L’inclusione è spesso intesa come “adeguamento” ad uno standard precostituito;
  4. Gli adolescenti sono attratti da figure ritenute “vincenti” e mirano ad essere tali, anche a scapito della loro identità.

A. Tutor-tutee: un’attenzione equa

Quando si strutturano attività che prevedono un tutoraggio, accade di sovente che chi progetta l’attività tenda a pensare maggiormente al destinatario dell’aiuto. Quello che ho osservato è che spesso il Tutoring venga espletato solo per metà. L’insegnante, l’educatore o il formatore si accorge della persona o del sotto-gruppo che è rallentato e per far giungere tutti all’obiettivo finale affianca i primi ad altri ritenuti più competenti che faranno da traino. Questa però rappresenta solo una parte del lavoro. Sarebbe molto proficuo se la stessa attenzione venisse posta anche nei confronti dei Tutor. L’aiutare l’altro in che modo lo può aiutare? Come si sceglie chi far aiutare chi?

Per rispondere a queste domande è necessaria l’attenzione e l’osservazione medesima che serve per accorgersi di chi rimane indietro, così da scoprire che il guadagno non consiste nel rimanere nel ruolo del “bravo”, ma magari nel sottolineare i punti di forza che ognuno possiede, e farli vedere a tutti oltre che agli insegnanti.

B. Tutor-tutee: sguardo trasversale tra competenze

Un altro aspetto che spesso appare evidente è che gli obiettivi concreti di un’attività di Tutoring riguardino quasi esclusivamente le competenze cognitive. Sicuramente il raggiungimento di una sufficiente conoscenza dei contenuti è un concreto obiettivo che ogni insegnante deve tenere ben presente durante la propria attività quotidiana. Ma nel progettare un’attività di tutoraggio, che come questa nostra esperienza punta a scoprire e sfruttare le risorse dei ragazzi con Bes, oltre le competenze didattiche è necessario considerare altre competenze, che rischiano di rimanere tesori inesplorati.

Le competenze sociali ad esempio spesso sono carenti anche in quei ragazzi eccellenti didatticamente. Le personali propensioni attitudinali possono offrire un supporto e una spinta che alleggerisce la fatica, ma spesso ad esse non viene posta adeguata attenzione. Per questo potrebbe essere molto utile verificarle insieme alle “competenze di base”.

C. Inclusione: adeguamento o valorizzazione delle differenze?

L’inclusione scolastica è un macro tema. In questa occasione è secondo me importante sottolineare che molto di frequente ciò che viene ritenuto inclusione sia l’assorbimento nel gruppo classe di qualcuno che “si differenzia”. Quindi inclusione assumerebbe il significato di “mettere dentro”. Ciò è vero, ma questa visione può essere riduttiva e non tenere conto delle singole individualità.

Usando una metafora culinaria sarebbe come se in una zuppa mezza cotta ci si limitasse a “mettere dentro” altri e vari ingredienti, aspettandosi che il gusto finale rimanga invariato rispetto all’aspettativa iniziale. In realtà l’intero composto ne è modificato, e per non creare un pasticcio sarebbe fondamentale conoscere bene i vari componenti e scegliere di esaltare quelle caratteristiche di ognuno che possono rendere più gustosa la zuppa anziché rischiare di renderla immangiabile.

D. Tutor-tutee tra adolescenti: questione di identità

Una delle caratteristiche adolescenziali è rappresentata dalla voglia di sentirsi vincente. Nella società attuale risulta vincente chi ha molta attenzione su di sé. Si ha molta attenzione se si hanno tanti follower sui social, se si viene riconosciuti nei corridoi della scuola, se in qualche modo ” si influenzano” le persone che circondano l’ambiente di vita. In base a questo anche in classe chi ha una o più di queste caratteriste diventa il modello a cui ispirarsi, il modello da imitare. Essere vincente o starci vicino è un obiettivo finale dello stare a scuola, per raggiungerlo spesso i ragazzi sono disposti a rinunciare alla propria identità, a svalutare le proprie attitudini e preferenze.

Sarebbe importante riscoprire invece le preferenze di ognuno in modo da re-distribuire la quantità dell’attenzione tanto anelata quanto illusoria se appoggiata a qualcosa che in realtà non appartiene allo studente.

La decisione di scardinare le logiche usuali

Partendo dai presupposti teorici del peer tutoring, integrando l’esperienza in classe stiamo sperimentando un progetto di tutoraggio con delle caratteristiche specifiche. In particolare abbiamo pensato di scardinare la logica “dell’alunno Bes” che ha bisogno di un tutor mettendo al centro le capacità e risorse dei ragazzi. L’alunno BES può essere lui stesso Tutor per i compagni, in quelle occasioni in cui è proprio lui ad essere particolarmente esperto ed efficace.

La stretta collaborazione di tutto il team di sostegno ha permesso di coinvolgere diversi ragazzi in questa idea innanzi tutto esplorativa. Dunque il progetto pilota è iniziato coinvolgendo una ragazza disabile, che per le sue caratteristiche segue un Pei differenziato NON riconducibile agli obiettivi della classe.

La scoperta della marcia in più di Domitilla

Domitilla (nome di fantasia) frequenta la IV liceo delle Scienze Umane, ha difficoltà a seguire lezioni frontali lunghe, complesse ed astratte che caratterizzano i programmi previsti per quel percorso di studi, si trova perciò spesso a distrarsi, ad isolarsi in un suo mondo e a cercare escamotage per stare fuori dalla classe.

Parallelamente Domitilla è molto curiosa, molto socievole e interessata alle persone che le sono intorno.

Una delle volte in cui Domitilla è uscita dalla classe in cui si sentiva sempre più spesso estranea, è successo per caso che si recasse nell’auletta dedicata al sostegno mentre c’erano altri compagni di scuola, impegnati in attività laboratoriali. In particolare c’era una compagna del primo anno, che chiameremo Lucrezia, anche lei disabile, che unitamente ad altre importanti difficoltà ha come caratteristica evidente il mancato uso della comunicazione verbale. Questa sua peculiarità rende la comunicazione abbastanza difficile e a volte frustrante sia per Lucrezia sia per l’interlocutore di turno.

Dunque si stava svolgendo il laboratorio artistico e Lucrezia si rifiutava di lavorare al suo mosaico. É stato in quell’occasione che Domitilla ci ha mostrato una sua grande risorsa: è riuscita a capire le esigenze di Lucrezia (preferiva un altra postazione), è riuscita a mettere a suo agio la compagna e insieme hanno lavorato e completato il mosaico. Ciò che era apparso particolarmente difficile ad insegnante di sostegno ed assistente, per Domitilla è stato di immediata comprensione e spontaneo spontanea è stata la sua soluzione operativa.

Mi è apparso subito evidente che quello era il vero senso del Tutoring:

  • Domitilla quel giorno ha trovato entusiasmante sentirsi utile e capace,
  • Lucrezia finalmente è stata capita e ha collaborato attivamente con una compagna.

Dal caso alla progettazione strutturata di Tutoring

L’evento positivo ma spontaneo che aveva coinvolto Domitilla e Lucrezia ci ha fatto pensare di attivare una vera e propria attività. Il Tutoring, come ogni attività strutturata che preveda obiettivi oggettivi e verificabili, non è un’attività estemporanea. Va programmata, pensata e tagliata ad hoc rispetto sia agli obiettivi che si prefissano, sia ai partecipanti.

Si tratta di un fine lavoro di sartoria artigianale: il modello, l’idea può dare la linea guida, ma poi è necessario effettuare le opportune modifiche e aggiustamenti affinché possa calzare a pennello. Nel progetto iniziale Domitilla dedicava un paio di ore a settimana per aiutare Lucrezia nelle attività laboratoriali. Così da puntare sulle abilità sociali intatte di Domitilla, diminuire la frustrazione dell’incomprensibilità di Lucrezia e contemporaneamente sottolineare le capacità manuali di quest’ultima.

Questa semplice esperienza ha preso la forma di un semplice progetto pilota che ha funzionato benissimo.

Avevamo l’obiettivo di ascoltare la difficoltà di Domitilla a rimanere in classe tutte e sei le ore senza che questo creasse un isolamento. Il tutoraggio della compagna più piccola ci ha dato la possibilità di aiutare Domitilla a dare un nuovo e profondo senso al suo venire a scuola, inoltre Lucrezia ha trovato un efficace aiuto nel comunicare e con questo aiuto è riuscita a mostrare molte sue capacità a volte sottostimate.

Se volessimo fissare degli indicatori a tre livelli (basso, medio, alto) con cui monitorare il progetto pilota potrebbero essere:

  1. Interesse del Tutor
  2. Interesse del Tutee
  3. Benessere del Tutor
  4. Benessere del Tutee
  5. Raggiungimento di un obiettivo comune

Rispetto a questi indicatori, fin dall’inizio del progetto, potremmo assegnare a tutti e 5 il livello alto. Punteggio alto attribuibile sia che si tratti di un Tutee più fragile, sia di un Tutee più esperto come può essere un docente in difficoltà comunicativa.

Come importante esempio a sostegno concreto di questo, abbiamo infatti l’attività del laboratorio artistico, all’interno della quale abbiamo iniziato il tutoraggio, che ha acquistato grande interesse anche da parte di altri colleghi e compagni che volevano imparare da Domitilla la modalità più corretta per comunicare con Lucrezia. Domitilla era di fatto un Tutor sia per i compagni sia per alcuni docenti che non riuscivano a comunicare con Lucrezia.

Forte del successo di questo primo embrionale esperimento abbiamo ambiziosamente pensato di poter ampliare i campi di applicabilità, tenendo presenti sia la struttura del Tutoring sia le criticità riscontrate nelle nostre classi.

Perciò abbiamo pensato di costituire un progetto che rispettasse i seguenti punti:

  • Ricercare i punti di forza e debolezza dei ragazzi
  • Affidare compiti di Tutoraggio ad alunni considerati fragili
  • Scegliere come Tutee alunni considerati integrati
  • Valutare la riuscita del Tutoring dando la stessa importanza ai partner del progetto

L’evoluzione del progetto che coinvolge anche compagni considerati leader

Sulla base di questi punti Domitilla è diventata Tutor di altri ragazzi oltre che di Lucrezia. Ad esempio ha offerto ai compagni la sua modalità positiva e fiduciosa negli adulti, questa si è dimostrata molto utile ad affrontare la paura delle interrogazioni, paure che in diversa misura accomunano praticamente tutti i ragazzi. Ha inoltre condiviso le sue percezioni e convinzioni con i suoi compagni sia che fossero più piccoli, più fragili o anche primi della classe e leader nella scuola. Questo ha fatto si che piano piano Domitilla aumentasse il suo interesse a stare a scuola e aumentasse la sua autostima e la percezione della sua autoefficacia.

Risultati che fanno ben sperare

Il progetto è ancora in corso, e visto la numerosità del campione non possiamo parlare di un esempio che fornisce evidenze empiriche, sicuramente però crediamo fermamente che dimostri quanto il concetto di Bisogni Educativi Speciali (Disabili, DSA, soggetti svantaggiati) possa a volte limitare le risorse dei ragazzi invece di offrir loro la meritata attenzione.

Noi abbiamo offerto la possibilità di dimostrare che esistono abilità in ognuno di noi e che puntare su quelle abilità può arricchire.

Nel nostro caso Domitilla si è arricchita riscoprendo l’entusiasmo a stare a scuola, traendo beneficio nel sentirsi utile e riconosciuta come particolarmente abile in un ambito che spesso lei stessa dava per scontato.

Contemporaneamente i ragazzi che hanno ricevuto il suo aiuto hanno ricevuto un doppio risultato: da una parte hanno superato alcune loro difficoltà, hanno infatti affrontato interrogazioni, hanno fatto amicizia con altri studenti, si sono fatti capire dai professori, dall’altra hanno scoperto e riscoperto Domitilla, che si è dimostrata una buona amica, una persona gioiosa ed entusiasta con cui è bello lavorare ed anche “Gosspare” (neologismo adolescenziale il cui significato che si avvicina a spettegolare).

Io personalmente sono stata molto felice di raccogliere questi risultati entusiastici, anche se non privi di fatica. Spesso ci siamo scontrati con la diffidenza di colleghi, ma quello che è rimasto evidente a tutti è che sicuramente possiamo andare oltre le classificazioni e le etichette, in modo che la scuola possa essere davvero un’agenzia educativa, che oltre a formare le menti possa formare le persone e aiutarle ad ascoltare anche le proprie propensioni e le proprie vitalità, anche dove la parola è impedita o la capacità logica è limitata.

Bibliografia per approfondimenti

Berretta C. (2016) Proposte per una scuola inclusiva. La teoria e la pratica per una riforma condivisa, Aracne
Berretta C. (2013) BES e inclusione. Bisogni educativi normalmente speciali, La Tecnica della Scuola
Johnson, D., Johnson R. e Holubec E. (1996). Apprendimento cooperativo in classe: migliorare il clima emotivo e il rendimento. Erickson.
Topping K. (2014). Tutoring – Nuova edizione: L’insegnamento reciproco tra compagni. Erickson.

Articolo precedente
LA SCUOLA COME COMUNITÀ CHE SI PRENDE CURA
Articolo successivo
Giocando si impara: come costruire in classe un clima inclusivo

Formazione