La “cura di scrivere”: come prevenire il burnout degli insegnanti

Soprattutto in questi ultimi anni e più ancora negli ultimi mesi si è lavorato e si sta lavorando molto sui vissuti nei contesti di lavoro. Quanto è avvenuto durante la pandemia è stato spesso una cartina tornasole di molteplici situazioni di fragilità e di fatica, nonché di solitudine e di percezione di inadeguatezza rispetto ad un sistema a cui la lavoratrice e il lavoratore spesso non solo sentono di non appartenere, ma che è vissuto nei casi più gravi come disfunzionale e persino ostile.

In particolare,uno dei temi sicuramente su cui più si è concentrata l’attenzione è quello del burnout.

Come accennato e come già visto in precedenti interventi sul sito di Scintille.it (Burnout: l’importanza dell’ascolto e del prendersi cura di sé e Burnout: dalle cause ai rimedi. L’importanza dell’ascolto e del prendersi cura di sé (2^ parte)), gli insegnanti sembrano essere particolarmente esposti a questo “bruciare” progressivo e apparentemente inesorabile.

Basta una rapida ricerca su Google per rendersene conto. Inserendo infatti nella stringa i termini “insegnanti” e “burn out” escono ad oggi 210.000 risultati dai titoli più vari: “Burn out e patologia psichiatrica negli insegnanti”, “Sindrome da burn out: ne soffre il 67% degli insegnanti italiani” a “Burn out: la solitudine degli insegnanti” e molti, moltissimi altri.

Impossibile leggerli tutti, ma apparentemente semplice vedere il fil rouge che lega tante e tante pagine diverse: vissuti fatti di fatica, di solitudine, di senso di impotenza, di difficoltà e a volte impossibilità di comunicare tutto questo in certi casi non solo all’esterno ma persino all’interno, ovvero a sé stessi. La scuola non è solamente questo, è chiaro. Ma non possiamo dimenticare che può essere anche questo.

Prendersi cura del proprio sé: una proposta

In che modo, dunque, è possibile affrontare con rispetto e delicatezza questi vissuti? È possibile ipotizzare delle strade di prevenzione del burnout che possano far intravvedere nel contempo anche una possibile cura?

Di questi temi si è già parlato ampiamente nei due già citati articoli e non sono certamente queste poche righe il luogo per trovare risposte definitive a domande tanto complesse e tanto controverse.

Prima di tutto perché non è possibile attraverso un discorso generale entrare nella storia individuale e negli infiniti vissuti di cui ciascun insegnante è portatrice e portatore.

Secondariamente, perché ogni ricetta precostituita in questi ambiti non può essere che fallace. Mai è possibile una “ricetta per la felicità” e tanto meno una “ricetta per il benessere”. Come bene ci ricorda Ginette Paris, infatti, “l’usignolo della felicità può posarsi in qualsiasi momento sulla nostra spalla e mettersi a cantare; tuttavia, a volte, ci vuole una lunga disciplina come quella della meditazione o di un’analisi in profondità per imparare a non metterlo in gabbia, e neanche chiedergli più di quanto non possa dare” (p. 136)1.

Nessuna ricetta a cui potersi affezionare, dunque, ma la possibilità di intravvedere un sentiero attraverso tre parole, quali disciplina, meditazione, analisi: tre parole che sembrano quanto mai lontane dal gergo didattico e che tuttavia possono, credo, guidarci in questa riflessione su cosa possa contribuire ad aumentare la possibilità di ben-essere a scuola, inteso non solo come un generico “stare bene”, ma qualcosa di più, ovvero un “essere”, appunto, che richiama alla possibilità di riconoscere se stessi anche attraverso il proprio ruolo che, in particolare per chi sceglie questa professione, non è semplicemente un fare, ma un modo per darsi al mondo e per essere riconosciuti dal mondo.

In altri termini, senza la pretesa di assolutizzare o di semplificare, potremmo dire che ciò che può aiutare a mantenere un senso in ciò che si fa e forse anche a trovarlo e a ritrovarlo, sta in una costante attenzione su di sé e sul proprio operato e sulle ripercussioni anche emotive suscitate dal nostro stesso operato. Per un insegnante può significare in altri termini riflettere non solo sul piano del che cosa fare, e quindi su tutto ciò che attiene alla didattica, ma anche su che cosa muove dentro se stesso/se stessa quel fare. Ora, il piano del fare è un piano fondamentale, certo, perché didattica è l’azione di ogni insegnante.

Ma può davvero darsi un fare disgiunto dall’essere?

Per rispondere proviamo a riprendere gli studi presenti in letteratura che ci dicono che la sindrome di burnout appare multifattoriale e determinata quindi da una coesistenza di

  • variabili individuali, non da ultimo l’età anagrafica (per alcuni l’età avanzata parrebbe un maggiore fattore di rischio, cosa che verrebbe smentita da altri studi)
  • fattori socio-ambientali e lavorativi,
  • fattori socio-organizzativi quali le aspettative connesse al ruolo, le relazioni interpersonali, le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, l’organizzazione stessa del lavoro.

A partire da questi dati di realtà proviamo a ipotizzare che un lavoro – che porti a riflettere su di sé e sui propri orizzonti di senso passati, presenti, futuri – possa in qualche modo preservare e proteggere il proprio entusiasmo, se non addirittura aiutare a ritrovarlo. Non è certo ovvio. Ma questa possibilità ci può guidare per cogliere quello che a breve diremo.

L’insegnante “riflessivo”

L’insegnante “professionista riflessivo” (Schön, 1993; 2006)è colui/colei che si pone come ricercatore e– grazie a tale atteggiamento – accresce conoscenze e competenze riflettendo sull’azione mentre essa si svolge.

In questo senso anche l’agire dell’insegnante cambia, in quanto, come sempre evidenziato da Schön (1993, p. 94), “quando il professionista riflette nel corso dell’azione, egli diventa un ricercatore operante nel contesto della pratica e costruisce una nuova teoria del caso unica. Egli non tiene separati i fini dai mezzi, ma li definisce in modo interattivo, mentre struttura una situazione problematica conversa con la situazione, senza separare il pensiero dall’azione. Egli ragiona sul problema fino alla decisione che in seguito dovrà trasformare in azione. È in questo modo che la riflessione nel corso dell’azione può procedere, anche in situazioni a forte grado di incertezza o peculiarità, perché non è limitata dalle dicotomie della cosiddetta razionalità tecnica”2.

Il piano qui è ancora quello del che cosa. Ancora una volta vediamo che la riflessività può avere, come ultimo esito, un affinamento della propria “prassi”, o “pratica”, come vogliamo chiamarla. Tuttavia, intravvediamo una luce nuova: solo attraverso una costante e profonda riflessione sul senso del proprio agire si può trasformare l’essere e dargli il valore che merita.

Come rendere operativo questo passaggio dall’agire all’essere?

Se torniamo alle parole di Paris (disciplina, meditazione, analisi) ci pare di poter vedere una strada nella pratica della scrittura autobiografica riflessiva. Anche sulla scrittura autobiografica si è detto moltissimo – basti solo pensare, tra tutti, ai noti lavori di Duccio Demetrio – ed esiste un’ampia letteratura in merito nonché un fiorire di scuole di autobiografia più o meno note. Non da ultimo, un certo tipo di scrittura può essere utilizzato anche come pratica terapeutica.

L’approccio a cui si fa riferimento in questo breve articolo è quindi quello di una scrittura come pratica del prendersi cura che parte da sé, di una scrittura pertanto che possa tradurre in operazione concreta parole come analisi (di sé, del proprio contesto, della propria situazione), meditazione (che ha in sé la stessa radice di medicina, anche lei derivante dal verbo medēri, che significa prendersi cura), disciplina, che rimanda a qualcosa che si può imparare e, potremmo aggiungere con un esercizio di pratica che può trasformare.

Il diario e la cura del sé (anche lavorativo)

La proposta è quindi quella di una via per riflettere non solo su ciò che si è fatto o si fa, ma anche per esplorare ciò che si può diventare e ciò che ci ha permesso di fare ciò che facciamo in termini di incontri, relazioni, bivi significativi della nostra vita.

Non solo quindi la stesura di un diario – pratica che può avere un’affinità con quanto viene proposto – quanto di quaderni, dai titoli diversificati che richiamano a momenti di approfondimento di sé diversificati.

Il riferimento – da cui altresì ci discostiamo in parte in particolare per motivi di semplicità – è a un percorso di auto-analisi inventato da Ira Progoff. Egli è stato uno psicologo junghiano che ha proposto, appunto, il metodo del Diario intensivo per il lavoro su di sé. L’elemento di novità con il diario “tradizionale” sta nell’essere una sorta di “sistema aperto, grazie al quale riusciamo a percepire in che punto del movimento della nostra vita ci troviamo. Si eseguono gli esercizi attivi in privato, e si esplorano le possibilità del proprio futuro nel contesto della propria vita”3.

Il diario è quindi diviso in sezioni che fanno riferimento a diverse “dimensioni” che invitano non solo a riflettere sul proprio presente (così spesso impregnato di “fare”) e riesce a tenere insieme questa ipotetica linea del tempo che costituisce, quel binario in cui scorre la nostra vita.

Il percorso immaginato da Progoff è quello di un continuo processo, anzi un’ipotesi di processo, per utilizzare le parole dello stesso Autore, che mostra come ciascuna sezione del Diario possa essere un canale per un particolare processo della vita personale.

Ognuna di queste sezioni invita a evocare i “contenuti” della vita di una persona senza, come chiarito da Progoff, “analisi o diagnosi” ma in modo da stimolare ulteriori percezioni interiori e movimenti di varia natura.

Come continua l’Autore, “le sezioni tendono a fecondarsi e ad attivarsi reciprocamente, liberando nuove energie e determinando nuove combinazioni di idee e sentimenti” generando così “un’energia cumulativa, che spesso provoca una trasformazione e rivela nuove direzioni nella vita di una persona” (Progoff, p. 16).

Quello che può portare la stesura di un Diario intensivo è, sempre secondo l’Autore che cita a sua volta il filosofo statunitense Emerson, è la possibilità della fiducia in se stessi, che Emerson stesso definì come fondamento dello sviluppo e della dignità dell’uomo, ovvero la capacità di poter mettere al centro della propria vita le proprie risorse, di poterle sviluppare, senza cadere nella trappola di fare affidamento prevalentemente sulle risorse esterne, che sono spesso mutevoli e in molti casi indipendenti o non del tutto dipendenti da noi.

Veniamo quindi alle sezioni del Diario più interessanti per il nostro lavoro: tempo e storia di vita, ovvero nodi e snodi della nostra vita; la dimensione del dialogo che si genera con l’altro; ciò che affiora dal profondo parlandoci attraverso sogni e immagini aurorali; il “ricucire” questi frammenti per dare loro un senso e una continuità.

Un lavoro su di sé che può venire guidato da un facilitatore in un gruppo di scrittura condivisa, ma anche affrontato in solitudine, facendolo diventare quasi un esercizio di meditazione e di prendersi cura, guadagnando così quella saggezza interiore che può permetterci di distaccarci in parte da ciò che accade e da ciò che, quando non viene rielaborato, può diventare distruttivo o almeno non completamente costruttivo.

Può essere interessante notare inoltre che si tratta di un lavoro che può essere pensato anche con le studentesse e gli studenti4, ma che non può nascere per diventare pratica didattica, pena il disgiungere, ancora una volta, l’essere dal fare, con il rischio di assegnare alla riflessività solo un ruolo pratico, il che porterebbe a impoverire un processo che vale proprio nel suo valore di processo, appunto, di avvicinamento a se stessi, ai propri desideri e alle proprie risorse personali. Ancora una volta, la convinzione forte è quella che ciò che un insegnante può fare per non “bruciare” e per inaridirsi è nutrire con costanza e determinazione la propria interiorità, la propria voglia di crescere, la fiducia di poter fiorire. Non si pensi a questo come tempo perso perché non “operativo” o addirittura non “produttivo”.

L’arte del prendersi cura è un percorso che parte prima di tutto dalla cura e dal rispetto di sé perché, lo sappiamo, ogni esempio vale di più di mille parole.

Per educare con il sorriso, quel sorriso dobbiamo avercelo dentro. Un sorriso che può abbracciare il mondo con amorevolezza, certo. Ma che invita ad abbracciare con amorevolezza prima di tutto se stessi.

Bibliografia essenziale (solo in riferimento a quanto citato nell’articolo)
Carlot I, Damini M. (2020). Il senso della scrittura. I Quaderni della Ricerca n. 53. Loescher, Torino.
Demetrio D. (1996). Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. Raffaello cortina Editore. Milano.
Metzger D. (1994). Scrivere per crescere. Una guida per i mondi interiori. Astrolabio Ubaldini, Roma.
Progoff I. (2000). Curarsi con il diario, Pratiche editrice, Milano.
Schön D. (1993). Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo edizioni, Milano.

1Ginette Paris (2008), Vita interiore. La psicologia del profondo dopo le neuroscienze. Bergamo: Moretti & Vitali
2 Per approfondimenti cfr.: http://nuovadidattica.lascuolaconvoi.it/agire-educativo/16-la-competenza-riflessiva/agire-riflessivo/ e anche http://www.pestalozzi.cc/ic/wp-content/uploads/2015/03/07_Competenze.pdf solo a titolo esemplificativo perché moltissimo è stato scritto sul sapere riflessivo degli insegnanti, nonché sulle possibili ricadute didattiche.
3Progoff I. (2000), Curarsi con il diario, Pratiche editrice, Milano, p. 9.
4 Per approfondimenti cfr. Carlot I, Damini M. (2020). Il senso della scrittura. I Quaderni della Ricerca n. 53. Loescher, Torino.

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